Il fast fashion cresce a dismisura nelle economie emergenti (per l’ambiente è un problema)

Dal 2000 al 2014 in Paesi come India, Cina, Russia, Brasile e Messico la vendita di prodotti fashion è cresciuta otto volte più che in Germania, Canada o USA. Nello stesso lasso di tempo su scala mondiale il numero di capi d’abbigliamento acquistati da ogni persona è aumentato in media del 60%. La produzione, intanto, è raddoppiata, mentre la longevità del singolo articolo (ovvero il tempo intercorso tra l’acquisto e il momento in cui il consumatore se ne disfa) nel 2014 risulta dimezzato rispetto al 2000. Mettono nero su bianco le trasformazioni del mercato della moda i dati del centro studi e consulenza McKinsey, che riconosce nel fast fashion il principale attore e beneficiario della congiuntura. Da un lato, infatti, è il segmento che per modalità produttive e velocità di riassortimento alimenta e sostiene la bulimia del mass market. Dall’altro è l’unico che per posizionamento di prezzo incontra la capacità di acquisto del ceto nuovo medio dei Paesi emergenti. Secondo le valutazioni McKinsey, nel 2014 per la prima volta l’industria della moda ha superato la produzione annua di 100 miliardi di articoli, mentre nel 2025 l’80% della popolazione delle economie in via di sviluppo avrà la stessa attitudine al consumo di quella dei Paesi occidentali. Il mercato del Fast Fashion promette una crescita esponenziale, insomma, ma se i grandi brand del segmento non si dotano di nuove politiche produttive in tema di consumo di acqua ed emissioni, pretendere che il settore rimanga sostenibile è impossibile. (rp)

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