In Uruguay le crisi delle concerie diventano un caso politico

In Uruguay le crisi delle concerie diventano un caso politico

La maggiore è quella di Paycueros, che non ha soddisfatto i requisiti per estendere gli ammortizzatori sociali per 89 operai e si appresta a licenziarli. Ma di crisi delle concerie in Uruguay non ce n’è solo una. E tutte arrivano a chiedere soluzioni al Governo: anche i dipendenti di Dofín hanno protestato per chiedere “sicurezza del lavoro”.

Le crisi delle concerie in Uruguay

La faccenda Paycueros, che si trascina da anni, è diventata politica anche perché, secondo i sindacati, è colpa del dipartimento della Sicurezza Sociale del ministero del Lavoro se l’azienda può procedere con gli 89 licenziamenti. Secondo le rappresentanze, il governo avrebbe dovuto spronare la conceria a incontrare i requisiti per proseguire con gli ammortizzatori sociali, piuttosto che permetterle di tagliare l’organico. Dal ministero, riporta la stampa locale, rigettano l’accusa: “Abbiamo concesso proroghe nell’ottobre 2023 per 66 lavoratori, nel dicembre 2024 per 49 e due volte nel 2025 per un totale di 103 dipendenti”. Insomma, non è certo il governo a non volersi impegnare nella salvaguardia dei posti di lavoro. “A settembre, un mese prima dell’ultima richiesta per gli 89 lavoratori, c’erano 220 dipendenti attivi e 138 beneficiari di sussidi – continua la fonte ministeriale –. Degli 89 licenziati, 22 sarebbero alla terza proroga: se andasse in porto, vorrebbe dire che riceveranno sussidi dall’azienda per un anno e mezzo”.

 

 

Agitazioni

Ma il caso Paycueros non è l’unico. Hanno manifestato al ministero del Lavoro anche i lavoratori della conceria Dofín. Che, raccontano i giornali, vivono una preoccupazione duplice e un po’ contraddittoria: in parte si uniscono alle proteste di altri comparti per ottenere gli adeguamenti salariali. Ma, dall’altro, chiedono garanzie “sulla sicurezza del posto di lavoro”: perché l’azienda ha minacciato il fallimento e i lavoratori vogliono risolvere la crisi prima che finisca in tribunale.

Foto d’archivio

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