In un certo senso, per capire il destino della filiera brasiliana basta rispondere a una semplice domanda: chi può non solo sostenere i costi di una crisi locale e globale, nonché nuovi investimenti? I gruppi grandi e strutturati che, nella fattispecie del Paese sudamericano, sono innanzitutto i colossi della carne con divisioni conciarie. “Credo che il prossimo futuro sarà all’insegna della concentrazione industriale – ci spiega Eugênio Campassi (in foto), ascendenze italiane e una vita alla guida di Tecnotan, rappresentante in Brasile di macchinari e tecnologie per la concia –. Anche perché la domanda si sta polarizzando in un modo che penalizza i piccoli”.
La preoccupazione USA della filiera brasiliana
Il Brasile nel 2024 è stato un’eccezione: mentre la pelle rallentava ovunque, segnava numeri positivi. L’eccezione, i numeri di CICB lo confermano, è finita col 2025. “Gli affari sono rallentati – chiosa Campassi –. Ora il problema più grave è il dazio al 50% che gli USA hanno imposto non per visione commerciale, ma per questioni politiche”. Non un problema di poco conto: nel 2024 e ancora nei primi 9 mesi dell’anno in corso gli Stati Uniti sono stati il secondo acquirente di pelle brasiliana. “L’esposizione sugli USA, che compra molto finito e semilavorato, è cresciuta con le forniture per l’industria automotive – osserva –. Sempre nell’ottica dell’assistenza agli stessi clienti delle quattro si deve leggere l’export verso il Messico, che per i materiali è una tappa intermedia”.
La domanda domestica
Se la domanda internazionale di pelle non brilla, c’è poco da fare affidamento su quella domestica. I calzaturifici votati all’export si sono fermati per le medesime tensioni nelle relazioni internazionali, mentre quelli per il mercato nazionale, che realizzano un prodotto di segmento economico o medio, “scontano una sofferenza ormai annosa”. Quale? “La concorrenza asiatica e cinese – risponde Campassi –. Il Brasile non ha le stesse infrastrutture e non può competere sui prezzi”. Lo stesso accade per la pelletteria. Senza sottovalutare che la quota di domanda domestica cui risponde la produzione nazionale non chiede, spesso, prodotto in pelle, ma per ragioni di prezzo in materiali sintetici.
Il disallineamento
Il Brasile, per chi ancora non lo sapesse, non è solo un grande Paese produttori di carne, ma anche in crescita: tra gennaio e marzo 2025, dicono i dati dell’istituto di statistica IBGE, macellando 9,869 milioni di bovini (+4,6% su base annua) ha segnato il miglior risultato trimestrale dal 1997. Vuol dire che, mentre la domanda di pelle finita stagna, la disponibilità di materia prima cresce. Ne consegue che “una quota maggiore di pelli grezze si destina alla produzione di collagene”, chiosa Campassi. E che solo i big, le multinazionali dell’agroindustria che hanno anche divisioni conciarie, possono restare a galla grazie alle loro economie di scala. “Hanno una prospettiva diversa – conclude l’esperto brasiliano –. Sono gli interlocutori ideali della filiera delle quattro ruote perché offrono forniture costanti. Sono nelle condizioni di investire, si sono mossi sulla tracciabilità e sapranno mettersi al passo dell’EUDR per restare sui mercati internazionali”. Le piccole e medie imprese, invece, non godono della stessa fiducia.
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