Per Esquire ci sarebbero “mucche allevate per la pelle”: e dove?

Per Esquire ci sarebbero “mucche allevate per la pelle”: e dove?

Vorremmo proprio sapere dove sono queste “mucche allevate per la pelle”. Perché, come sempre, non abbiamo problemi con chi sviluppa nuovi materiali (i cosiddetti next-gen). Quindi ben venga il progetto dell’Imperial College di Londra per un nuovo tessuto derivato dalla coltivazione batterica: l’aspettiamo alla prova del mercato (e prima della scalabilità industriale). Abbiamo problemi, però, con gli argomenti avventati e le definizioni scorrette. Proprio come fanno i ricercatori inglesi ed Esquire, che dà loro corda, quando suggeriscono che sulla pelle conciata pesi l’impronta ambientale del bestiame allevato ad hoc.

 

 

Le fantomatiche “mucche allevate per la pelle”

Già l’espressione “pelle vegana” per definire il nuovo materiale è motivo di delusione. Come noto, il cosiddetto Decreto Pelle ne proibisce l’uso in sede commerciale perché decettivo per il consumatore (cioè: perché trae in inganno il cliente suggerendo una qualità che il prodotto non ha). Il riferimento all’argomento tanto caro alla più retriva demagogia animalista (non a caso cavalcato da PETA e Stella McCartney) impone invece una reazione. È una subdola manipolazione dei rapporti di filiera che vuole instillare nel pubblico il dubbio che la pelle sia responsabile dello “spreco” di un animale sacrificato allo scopo. È vero il contrario. La concia è circolare: raccoglie e nobilita uno scarto della zootecnia (che il bestiame lo alleva per la carne, per il latte e per la lana, nel caso degli ovini). Non lo diciamo noi, lo mette nero su bianco anche l’Europa con il Regolamento CE 1069/2009. Quello che vorremmo chiedere ai ricercatori dell’Imperial College di Londra e ai redattori di Esquire, allora, è: se esistono questi allevamenti bovini a sostegno dell’industria conciaria, dove diavolo sono? Provate a cercarli, non li troverete.

Foto Shutterstock

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