Così alla fine la tassa sul fast fashion cinese la pagheremo tutti

Così alla fine la tassa sul fast fashion cinese la pagheremo tutti

Chiamiamola “eterogenesi dei fini”, cioè (detta in soldoni) una di quelle occasioni in cui si raggiungono risultati molto diversi dalle intenzioni iniziali. Ma la cosiddetta tassa sul fast fashion cinese al varo del Governo italiano, vale a dire l’obolo che molti (incluse le associazioni della moda) invocano per arginare lo strapotere commerciale di piattaforme come Temu e Shein, si potrebbe trasformare in imposta di 2 euro su ogni spedizione dal valore inferiore ai 150 euro da e per l’Italia. Vorrebbe dire che la pagheremo tutti: chi acquista un capo ultra-cheap prodotto in Asia, certo, ma anche chi dalla Germania acquista un accessorio Made in Italy.

 

 

La tassa sul fast fashion cinese

Riavvolgiamo il nastro. Sulla faccenda può davvero intervenire solo l’Unione Europea, che al momento prevede l’esenzione dai dazi per i passaggi in Dogana di merce dal valore inferiore ai 150 euro. Uno stato membro, sintetizza il Sole 24 Ore, non può applicare in autonomia una tassa sulle importazioni da una specifica area geografica, perché imporrebbe un dazio. E i dazi, come si è detto, sono competenza di Bruxelles. Con gli emendamenti alla Legge di Bilancio 2026, quindi, il Governo italiano vuole anticipare l’UE, ma per aggirare l’inghippo delle competenze doganali dovrebbe cambiare la formulazione dell’obolo: “I 2 euro gravano sia sui pacchi in partenza dall’Italia sia su quelli in arrivo”. Peccato che così cambi totalmente il senso della misura, che rende un pochino più oneroso l’acquisto di cineserie, così come l’export di tanta merce nazionale. Vedremo quale sarà il risultato finale, ma intanto si nota l’eterogenesi dei fini.

Foto da Shutterstock

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