Il dilemma di Mulberry davanti a Brexit: “Con un dazio sulla pelle italiana, in crisi l’architettura dei prezzi”

Non è facile dirigere un brand con aspirazione globale e identità locale, soprattutto se il tuo Paese di provenienza intende troncare le relazioni con il resto del continente di riferimento. Lo sa bene Thierry Andretta, ceo di Mulberry, azienda made in UK, che trova nel mercato domestico il 70% delle vendite, ma che intende internazionalizzarsi e che poggia già su una catena del valore mondiale. Ecco, mr. Andretta, mentre vola tra le fashion week di Seul, Parigi e Londra per partecipare alle presentazioni delle nuove collezioni, confida al Guardian i suoi timori a proposito di Brexit, l’ormai imminente uscita del Regno Unito dal mercato unico europeo. “Noi compriamo tra il 5 e il 10% della pelle in Inghilterra”, dice. È difficile pensare che si possa fare di più: “Qui non ci sono concerie – spiega –: non c’è abbastanza produzione per le nostre esigenze”. Rivolgersi all’estero, allora, è inevitabile: “Dobbiamo avere relazioni con l’Italia, lì ci sono le concerie più grandi – afferma il ceo di Mulberry, che poi aggiunge –. Un nuovo dazio avrebbe conseguenze, però, sul prezzo delle forniture”. La situazione per il brand inglese è tutt’altro che rosea: sommata alla prospettiva di un pound debole, comporta il crollo dell’intera architettura dei prezzi. La maison è agganciata al segmento dell’affordable luxury e non può permettersi riposizionamenti. “Il nostro pubblico pone la soglia psicologica a 995 sterline”, conclude Andretta. Brexit, allora, sembra più un problema che una risorsa.

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