La fabbrica di “ecopelle sintetica” in realtà fucina di veleni

La fabbrica di “ecopelle sintetica” in realtà fucina di veleni

Si proclamava sostenibile, ma in realtà inquinava 24 volte oltre il limite. Un produttore di pelle sintetica è stato citato in giudizio a Changhua, nel cuore del distretto industriale costiero di Taiwan. Le accuse? Emissioni illegali di toluene, un solvente tossico e infiammabile, e frode sistematica sulle materie prime utilizzate. L’azienda dichiarava rivestimenti ecocompatibili a base d’acqua, ma impiegava composti chimici ad alto impatto ambientale, eludendo le tasse sulle emissioni e falsificando i volumi di produzione. Una fabbrica di “ecopelle sintetica” in realtà fucina di veleni.

La fabbrica di “ecopelle sintetica”

Martedì, l’Environmental Management Administration ha denunciato un’azienda chimica del parco industriale costiero di Changhua per aver emesso toluene in quantità 24 volte superiori al limite legale. Come riporta Taiwan News i dati dei sensori ambientali, incrociati con i rapporti interni, hanno rivelato una gestione ingannevole: l’azienda dichiarava l’uso di rivestimenti in resina ecocompatibile, ma impiegava solventi tossici come toluene e metiletilchetone. Oltre a non pagare le tasse sulle emissioni, aveva sottostimato l’uso di materie prime per eludere le quote di conformità. Il caso è stato deferito alla Procura distrettuale di Changhua. Le sanzioni previste dalla legge includono fino a sette anni di carcere e multe fino a 31.000 dollari statunitensi.

 

 

Un’industria che si dice verde

Il toluene è un inquinante atmosferico che provoca irritazioni, nausea, e nei casi più gravi, danni permanenti. Tra agosto 2023 e settembre 2025, il Ministero ha indagato su 113 casi di emissioni e smaltimenti illegali, con oltre 1.100 persone deferite e multe per 34 milioni di dollari taiwanesi. Il governo promette più sorveglianza e l’uso dell’intelligenza artificiale per monitorare l’aria, ma resta il paradosso: mentre il marketing parla di green, la realtà è tossica. E il caso Changhua lo dimostra.

Foto Ministero dell’Ambiente Taiwan

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