Complementarietà del business, sinergie e, soprattutto, interessi borsistici: tutti i perché del matrimonio Kors-Versace

Ci sono tante ragioni per le quali a Michael Kors, ma forse a questo punto dovremmo dire a Capri Holding, è convenuto acquisire Versace. C’è l’interesse di un gruppo del medio-alto di mettere un piede nel lusso vero e proprio, per cominciare. Influisce la suggestione di fare propria una griffe dall’ancora inesplorato potenziale di crescita, una griffe per di più forte in quel casual luxury che oggi va per la maggiore. È certamente strategico, per un gruppo che poggia sulla calzatura e sulla pelletteria, acquisire Versace, regina dell’abbigliamento. Ma soprattutto, si legge in un’analisi de la Stampa, pesa la necessità di Michael Kors di smuovere le acque a Wall Street. In che senso? Come ogni gruppo quotato, quello americano sa che ai mercati non bastano la qualità del design e della manifattura, o l’appeal delle collezioni, cioè i punti essenziali per un’industria della moda. Gli investitori pretendono innanzitutto un dato, il business in crescita, altrimenti sono guai. Kors, da qualche anno stabile intorno ai 4,5 miliardi di dollari di fatturato, ha compiuto la scelta di dare respiro alle vendite non aumentando quelle dei brand di casa, ma acquisendone di nuove. È il motivo per il quale lo stesso gruppo nel 2016 aveva già comprato Jimmy Choo e le conglomerate del lusso hanno sempre i fari puntati per nuove operazioni. Un meccanismo borsistico che ormai fa parte del modus operandi dei grandi, ma che al contempo ha tenuto altri big (come Prada o Chanel), gelosi della propria autonomia, lontani dai mercati azionari.

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