La febbre dell’alto di gamma, in 3 anni, è costata la testa a un ceo/creativo su due

La filiera della moda che ha mostrato la maggiore instabilità è stata quella statunitense: negli ultimi tre anni 7 griffe su 10 hanno cambiato ceo. In Italia, invece, il 50% delle principali aziende del lusso ha sostituito il proprio direttore artistico, poco meno della Francia (54%) e poco più del Regno Unito (45%, mentre il tasso di avvicendamento alla poltrona di amministratore delegato in UK è stato del 56%). Era una sensazione diffusa tra molti, ora è una certezza statistica messa nera su bianco dal centro analisi Value Search per Corriere Economia: mai come nell’ultimo triennio c’è stata tanta frenesia ai piani alti delle maison di moda. Da Raf Simons che ha abbandonato Dior per poi approdare in Calvin Klein, fino a Jonathan Akeroyd che ha preso il posto di Gian Giacomo Ferraris (nella foto, tratta da business-standard.com) in Versace, il tourbillon di incarichi e ingaggi è stato molto più frenetico del solito. Le griffe si sono sbizzarrite nella speranza di trovare nuova linfa per riposizionarsi in un mercato che vede il consumatore cambiare attitudine alla spesa e l’online stravolgere le logiche distributive. L’analisi di Value Search mette in evidenza due elementi, che danno la misura di come l’effervescenza sia stata dettata da necessità di revisione economica prima ancora che stilistica. Innanzitutto, tra i 50 grandi gruppi presi in analisi, solo in pochi casi il cambio di management ha seguito un passaggio di mano alla proprietà. Nella continuità proprietaria, dunque, si è sentito il bisogno di ricambi al vertice. In seconda battuta, spicca la volatilità degli amministratori delegati: “In passato era ricorrente che un ceo rimanesse in carica anche 10 anni – sostengono gli autori della ricerca –. Oggi anche gli ad sono sottoposti a un veloce turnover”. Margini, retail, costi: se i risultati non vengono subito, saltano le teste. (rp)

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