Le crisi sono affascinanti perché, se non altro, spronano a rivedere dapprincipio i fondamentali del business. Negli ultimi tempi il sistema dell’alta moda si è confrontato con le sorti dello stilista-star: funziona ancora il profilo del designer accentratore? O, meglio, dove può ancora portare risultati (commerciali, se non creativi) una personalità più mediatica dello stesso brand? La domanda ha valicato il confine dell’ufficio stile e, nota WWD, si è allargata a quella dell’amministratore delegato. Già, perché (a farci caso) ultimamente ci sono un po’ di griffe che hanno rinunciato al CEO.
Non solo lo stilista-star
Di esempi ce ne sono molti e a tutti i livelli della piramide del lusso e del premium. Il gruppo Prada non ha sostituito Gianfranco D’Attis al comando del brand ammiraglio, ma ha affidato la responsabilità ad Andrea Guerra, CEO della holding. Similmente il gruppo Ferragamo ha lasciato che fosse il presidente Leonardo Ferragamo a concentrare su di sé le funzioni che erano di Marco Gobbetti. Mentre LVMH, dopo che Serge Brunschwig è passato al gruppo OTB, ha lasciato Fendi senza amministratore delegato. Certo, la situazione è magmatica e sempre aperta a novità (da un momento all’altro potrebbe ricomparire un CEO dove prima non c’era). Ma la tendenza è evidente: in questo frangente i marchi non hanno più bisogno di un manager forte al vertice. Bensì preferiscono (anche alla luce dell’articolazione dei board e delle novità nei quadri dirigenziali) maggiore e più stretta organizzazione del personale a tutti i livelli. Cioè “un più chiaro coordinamento – riprendendo le parole di Guerra – tra gente, idee, spirito, pensiero, creatività, a tratti in grado di seguire i trend e, quando necessario, di remare in direzione contraria”.
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