Arriva l’onda Trump: da LVMH a Under Armour, poi Ford e Amazon: tutti promettono investimenti negli USA

Lo scorso 8 gennaio Bernard Arnault ha incontrato Donald Trump (nella foto) alla Trump Tower di New York. Il gruppo del lusso LVMH, che già da 25 anni ha produzioni negli USA e da lungo lascia giacere in ghiaccio progetti di ampliamenti, adesso potrebbe considerare piani di espansione della propria manifattura negli Stati Uniti. Anche Jeff Bezos, ceo e fondatore di Amazon, ha incontrato negli ultimi mesi il prossimo inquilino della Casa Bianca a Manhattan: ora afferma che nei prossimi 18 mesi conta che la sua creatura assuma 100.000 persone negli States. È noto quanto il tycoon, vincitore a sorpresa prima delle primarie dei Repubblicani e poi delle Presidenziali dello scorso novembre, abbia puntato in campagna elettorale sul tema del “bring jobs back in the US”: basta delocalizzazioni, le firme producano entro i confini statunitensi i prodotti che si vendono nei 50 Stati della Federazione. È altrettanto noto, al contempo, quanto sia divisiva la figura del neopresidente, quindi nessuno degli imprenditori che nelle ultime settimane ha promesso nuovi investimenti ha detto esplicitamente di farlo per andare incontro a lui. Né, tantomeno, ha ammesso di farlo per evitare le “border tax”, i nuovi dazi alle reimportazioni paventati da Trump. E così Kevin Plank, ceo di Under Armour, afferma di voler assumere 1000 persone negli stabilimenti di Baltimora perché si è reso conto che portare le produzioni dove il lavoro è più economico non è più sostenibile. Il gruppo Ford, invece, dice di aver annullato l’investimento da 1,2 miliardi di dollari già programmato in Messico a favore di 700 milioni in Ohio e Michigan non per compiacere Trump, ma per strategie autonome. Idem il gruppo Fca – Chrysler (leggi Fiat) che ha annunciato un miliardo di investimenti in Ohio e Michigan senza “rivendicazioni politiche”, ma incassando via Twitter il ringraziamento del tycoon. Trump si insedierà il prossimo 20 gennaio: è ancora presto per dire quali saranno gli effetti sull’economia USA della sua presidenza (e, in particolar modo, le conseguenze sul prezzo finale al consumatore delle trasformazioni della filiera di produzione). Di certo dopo lo sconcerto iniziale è iniziata la “normalizzazione”. (rp)

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