Cuba, la concia che fu arte in cerca di opportunità

Bottali ormai vecchi, lavoratori immersi nell’acqua delle vasche fino alla vita per recuperare le pelli appena conciate, operazioni di carico e scarico eseguite a mano, utilizzando carretti di legno. È questo l’odierno colpo d’occhio di una conceria cubana, così come la si può vedere da un servizio del giornale di regime Granma. Il settore soffre per la mancanza di investimenti e per le conseguenze dell’isolamento commerciale in cui versa l’isola: due fattori che hanno impedito alla filiera cubana della pelle di tenere il passo con il resto del mondo, nonostante un passato a tratti anche glorioso.

Le origini
L’arte di lavorare la pelle, derivante dagli animali cacciati e mangiati, viene introdotta a Cuba dai coloni spagnoli nel sedicesimo secolo con l’avvio dei traffici commerciali tra la splendida isola del Centro America e la madrepatria. Lo scambio era di fatto unidirezionale, nel senso che dalla Spagna arrivavano a Cuba solo la materia prima necessaria ad avviare il popolamento della colonia e gente in cerca di fortuna, mentre il viaggio al contrario era compiuto da materie prime molto ricercate e di alto valore. Nella prima metà del secolo l’estrazione dell’oro divenne ben presto l’attività economica fondamentale di Cuba, accompagnata dallo sviluppo di una semplice agricoltura di sussistenza. Più tardi, avendo esaurito le vene del prezioso materiale, i coloni spagnoli iniziarono ad allevare bestiame e quindi a lavorarne il pellame. Il processo di concia era molto faticoso: i coloni spagnoli lasciavano che a farsene carico fossero gli schiavi importati dall’Africa.

La concia si fa arte
Fino alla metà del diciassettesimo secolo l’economia di Cuba si è basata sul commercio della pelle e l’estrazione del rame, attività un po’ alla volta offuscate dalla richiesta crescente di canna da zucchero e foglie di tabacco. A fornire uno spaccato delle esportazioni di Cuba tra sedicesimo e diciottesimo secolo è lo storico spagnolo Francisco Morales Padrón, professore dell’università di Siviglia, grande esperto della scoperta del continente americano e della sua storia, che nel volume “El comercio canario-americano” edito nel 1995 spiega: “Le pelli che arrivano alle Isole Canarie non provengono dai porti venezuelani, ma sono solitamente spedite da L’Avana, e sono, quindi, pelli delle Antille, pelli allineate nelle cantine accanto a quintali e quintali di zucchero”. Nonostante zucchero e tabacco divengano merci sempre più richieste, la lavorazione delle pelli continuò ad avere un buon mercato al punto che alcuni imprenditori spagnoli del settore – baschi in particolare – decisero di partire per il Centro America fiutando il business. Qui portarono la loro grande manualità e di tanto in tanto, quando spedivano in Europa pelli, scarpe, abbigliamento e accessori creati con la materia prima cubana, si facevano mandare indietro operai specializzati. L’arte conciaria si tramandò così alle nuove generazioni, che si specializzarono nella produzione di calzature al punto che le scarpe in pelle di Cuba, sia da uomo che da donna, – che solamente i più abbienti potevano permettersi – venivano vendute dalle aziende locali anche fuori dall’isola.

Il boom industriale e poi il declino
Come racconta Bohemia, storica rivista culturale di Cuba fondata nel 1908, negli anni Sessanta del Novecento si contavano a Cuba ben 68 concerie, ma è negli anni Ottanta che l’industria conobbe il suo apice. All’epoca l’attività di concia si era concentrata in 13 aziende distribuite tra le province de L’Avana, Matanzas, Villa Clara e Camagüey. Le imprese erano di proprietà di quattro distinte società e complessivamente erano capaci di produrre 3 milioni e 900 mila metri quadrati di pelli all’anno. L’apice di una curva che proprio a quel punto ha iniziato a declinare a causa di mancati investimenti per il rinnovamento tecnologico, scarsità di risorse e il blocco imposto dagli States. I tempi di produzione si sono allungati, la qualità è calata, le condizioni di lavoro sono diventate di conseguenza preoccupanti e la contrazione dei fatturati ha cominciato a far saltare a volte stipendi, a volte intere aziende. Così in molti hanno deciso di lasciare il posto in conceria per dedicarsi ad altro, impieghi più sicuri e meglio pagati come quelli legati al turismo, in forte espansione.

 Le difficoltà di oggi
“Oggi, per esempio, quello che potrebbe essere venduto in Paesi vicini (e quindi con costi di trasporto inferiori, ndr) lo dobbiamo mandare in Italia perché sia acquistato – racconta alla rivista Mysora López Soler, direttore generale della Tenería y Pieles, a proposito del peso dell’isolamento -. Allo stesso tempo importiamo merce dalla Cina ed è molto costoso: il noleggio e il viaggio di un container di 20 piedi dall’Asia a Cuba ci costa 5.000 dollari, se arrivasse dal Messico ce ne costerebbe 1.000“. La mancanza di rinnovamento tecnologico determina anche un maggior impatto ambientale delle aziende e una minor qualità del prodotto finito, cosa che allontana i potenziali clienti, di certo non ingolositi dall’offerta e da un costo per giunta troppo elevato, seppur determinato da fattori esterni. Infine, c’è una carenza culturale: spesso infatti la bassa qualità delle pelli si riscontra già all’ingresso della materia prima nelle concerie, dove arrivano materiali con segni evidenti di cicatrici lasciate da recinzioni, punture di insetti come le zecche e marchiature evidenti fatte con ferri roventi.

Le speranze di domani

Affinché la filiera della pelle a Cuba possa tornare a splendere, magari ripartendo proprio dai calzaturifici e ora anche dai guantifici – famosi per la produzione di guantoni da baseball – gli investimenti non devono riguardare solamente le concerie, ma anche la filiera a monte: “È necessario che gli allevatori si dotino di recinzioni elettrificate, che vengano programmati dei controlli sanitari e che vi sia una buona gestione e alimentazione delle mandrie – continua Mysora- È anche necessario che il trasporto della pelle grezza avvenga nel minor tempo possibile, non più di sei ore, perché si conservi in modo adeguato”. (art)

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