La saga dei dazi, tra proroghe, scappatoie e potenziali accordi e, soprattutto, incertezza penalizza i potenziali investimenti esteri negli USA. Dopo aver minacciato dazi al 50% sulle importazioni dall’UE a partire da giugno, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha (di nuovo) cambiato idea, ripristinando la scadenza del 9 luglio. “È una partita a poker” afferma il CEO della griffe Stefano Ricci. Intanto, ci sarebbe una scappatoia per la calzatura.
Chi ci capisce è bravo
L’incertezza regna sovrana nella saga dei dazi. Con Trump che fa e disfa, annuncia e poi fa marcia indietro. Domenica scorsa, riporta Sourcing Journal, mentre saliva a bordo dell’Air Force One nel New Jersey ai giornalisti ha detto: “Non vogliamo produrre sneaker, t-shirt e calzini. Possiamo farlo benissimo in altre sedi”. Altro che rilancio della manifattura a stelle e strisce. Secondo il presidente degli USA l’attenzione dovrebbe concentrarsi su chip, computer, carri armati e navi, equipaggiamento e tecnologia militare, piuttosto che su beni di largo consumo. Di recente, il segretario al tesoro Scott Bessent ha affermato che gli Stati Uniti non hanno necessariamente bisogno di una “industria tessile in forte espansione”.
Ma allora di che stiamo parlando
Dichiarazioni che non infondono certo coraggio in chi pensava di investire negli USA per produrre abbigliamento e/o calzatura. Alexander Zar, titolare di La La Land (progettazione e fabbricazione di calzature e accessori a Los Angeles), dalle pagine del numero di maggio del mensile La Conceria (“Nuovo ordine commerciale”) spiegava che proprio la cornice confusionaria degli eventi è il peggior ostacolo ai cascami positivi della Trade War. La possibilità di aumentare la quota di produzione negli Stati Uniti per il mercato nazionale ha attivato l’interesse di gruppi imprenditoriali asiatici ed europei, ci assicura Zar. Ma fino a quando la Casa Bianca non mette nero su bianco sistemi doganali e obiettivi strategici, nessuno si muove.
Partita a poker
“La vedo come una grande partita a poker… se c’è un aumento del 10%, ne assorbiremo la metà e l’altra metà la trasferiremo al consumatore finale“, ha dichiarato Niccolò Ricci, CEO della casa di moda Stefano Ricci, a Reuters. Dopo un aumento di circa il 10% del fatturato nel 2024, raggiungendo i 233 milioni di euro, l’azienda fiorentina del lusso ha registrato una flessione dei ricavi del 3% nei primi quattro mesi del 2025 proprio per le tensioni geopolitiche secondo il CEO. D’altronde, l’incertezza sui dazi è massima. Il CEO di Golden Goose Silvio Campara, in più occasioni, ha ripetuto come negli Stati Uniti dal 1998 esista il “First Sale Rule”. Che stabilisce? Se un prodotto è realizzato appositamente per gli States, il dazio si applica sul costo di produzione, non sul prezzo. Per cui, spiega Campara, il dazio del 20% si trasforma in un impatto del 4%. “Il problema non sono i dazi, ma l’ignoranza su come si calcolano” ha sottolineato con il Corriere della Sera.
Mica è facile
Secondo le informazioni in nostro possesso, il ricorso alla First Sale Rule non è un automatismo. In primo luogo, perché fin dal primo giorno della Trade War non c’è chiarezza sul campo di applicazione della norma. Per cui il “First Sale Rule” effettivamente esiste, ma la sua applicazione resta incerta. Una società con una filiale commerciale negli Stati Uniti, come Golden Goose, di sicuro si districa meglio nella burocrazia statunitense. Ma per la stragrande maggioranza delle PMI italiane, che la filiale negli States non ce l’hanno, risulta tutto più nebuloso e incerto. (mv)
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