L’Italia non avrà mai un gruppo del lusso come Kering, dice Norsa (ex Ferragamo); Marenzi (SMI) invoca unità d’intenti

Arrendiamoci, non ci sarà nessuna risposta tricolore allo strapotere di Kering e LVMH: “Siamo in ritardo di 15 anni e non ci sono persone o istituzioni in grado di attivare questo tipo di processo”. Michele Norsa (a sinistra nella foto), dal 2006 allo scorso aprile ceo di Ferragamo, chiude così all’idea che possa nascere anche in Italia una mega-holding del lusso: “Ci vogliono imprenditori illuminati che nel passaggio generazionale capiscano il percorso da fare”, ha detto il 10 novembre alla platea milanese del Fashion Luxury Summit di Pambianco, sottintendendo che (almeno al momento) questi imprenditori non si vedono. La penuria di opportunità dell’oggi, è opinione del manager, deriva dalle chance mancate nel recente passato. Per anni a differenza di quanto accadeva in Francia “non si è riusciti a fare aggregazione”, ha sintetizzato Norsa, mentre il passaggio generazionale “dei grandi stilisti e grandi e medi imprenditori” non è stato sempre lineare, col risultato che i brand italiani “sono finiti sotto il controllo di gruppi stranieri”. Il contesto di mercato per l’industria del lusso, ora, si è fatto complicato: “Dopo periodi relativamente facili per tutti – sono le parole di Norsa –, oggi si va incontro a una fase di consolidamento e a crescite più contenute: ci saranno winner e loser”. Di buono, c’è che “si sta lavorando molto bene sull’appeal della moda italiana, mai stato così forte in passato”. In che senso? “Qualche anno fa i nuovi consumatori – le conclusioni – erano attratti solo dai marchi, non conoscevano la cultura italiana. Oggi sono più sofisticati e apprezzano le bellezze del nostro Paese, dal cibo alle città. I brand devono saper soddisfare questo nuovo cliente”. Intervenuto all’incontro Pambianco, Claudio Marenzi (patron di Herno e presidente di Sistema Moda Italia, a destra nella foto) a proposito delle condizioni dell’industria italiana dell’eleganza manifesta soddisfazione per il dato della crescita dell’1,8% nel 2016. Stando ai dati di Camera Nazionale della Moda, il tessile vale 52 degli 83,6 miliardi di euro fatturati nel complesso. Ma Marenzi invita alla prudenza. Nel dato CNMI si nascondono “forti differenze tra le aziende a valle”, vale a dire i marchi, e quelle “a monte, che devono essere aiutate ad abbracciare la rivoluzione digitale e le incognite globali”. Insomma, la crescita del tessile è a due velocità: perché l’intera filiera si sviluppi insieme, griffe e fornitori devono ragionare come se fossero una cosa sola. (rp)

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