La scarpa USA e il fantasma del protezionismo di Trump: “Comunque vada, non possiamo smettere di delocalizzare”

I dazi di Trump contro UE

“Se le tariffe all’importo vengono alzate del 30%, come ventilato, il business diventerebbe molto difficile: le forme delle mie scarpe sono fatte in Messico e le migliori componenti sono italiane. Il costo dei miei modelli diventerebbe proibitivo”. Così esordisce Calleen Cordero, che nel 1999 ha lanciato una linea di scarpe made in Los Angeles e che, insieme ad alcuni colleghi del settore calzaturiero USA, ha espresso la serie preoccupazione nei confronti della nuova mission protezionista della Casa Bianca. Pat Ritz, ceo di Footwear Specialties International (scarpe da lavoro) rincara la dose: “Le attuali tariffe sono tra l’8,5% ed il 10%. Anche sue aumentano risulterebbe quasi impossibile sostituire i nostri numerosi terzisti asiatici con terzisti nazionali”. Lyle Klimesh di John Deere/McRae Footwear nota che “il costo di una scarpa diventerebbe altissimo. Se c’è un cliente che cerca il made in Usa, e quindi è disposto a pagare, ce ne sono molti altri che hanno un budget di acquisto molto limitato e cercano prezzi vantaggiosi”. Wayne Lee, presidente del brand Genuine, dice: “Tutto ciò che vendiamo è prodotto in Cina. Altre aziende hanno la manifattura in Vietnam o Indonesia, ma a nostro giudizio non durerà a lungo perché i costi in quei Paesi si stanno avvicinando a quelli cinesi. Una soluzione potrebbe essere la Cambogia, Myanmar o Bangladesh”. Tradotto: dazio o dazio, continueremo a delocalizzare. (pt)

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