Il paradosso delle critiche di Veja alla filiera europea

Il paradosso delle critiche di Veja alla filiera europea

C’è un che di paradossale nelle critiche di Veja alla filiera europea della pelle. E, va detto subito, la colpa non è del brand di sneaker, ma della cornice in cui si sta sviluppando il dibattito sulla trasparenza delle catene del valore. Parlando con Vogue, il cofondatore Sébastien Kopp spiega di aver portato parte della produzione (vista la saturazione dei fornitori brasiliani) in Portogallo. La fornitura di pelli dallo stesso Paese lusitano e dall’Italia (cui in futuro si aggiungerà la Spagna) presenta una difficoltà in più rispetto all’approvvigionamento latinoamericano. Quale? Le concerie brasiliane con cui collabora Vieja sono in grado di mappare l’origine della materia prima fino agli allevamenti, così da appurare che non ci siano rischi collegati come la deforestazione. Quelle europee, invece, “stanno ancora lavorando” su tali elementi di trasparenza.

 

 

Il paradosso delle critiche di Veja

Gli aspetti paradossali che il pubblico generalista (quello meno addentro alle dinamiche del settore) potrebbe non cogliere sono due. Innanzitutto, in ritardo sulla tracciabilità di allevamenti e macelli non sono le concerie europee, ma i fornitori upstream europei. Perché sono loro (aziende zootecniche, di trasformazione della carne etc) a gestire la prima parte del viaggio della pelle grezza, scarto dell’industria alimentare che diventa commodity della concia, industria circolare per definizione. Non solo. Il secondo paradosso sta nelle premesse: la filiera sudamericana è (relativamente) più avanti sulla questione deforestazione perché il problema riguarda primariamente le biosfere del subcontinente (Amazzonia, Cerrado, El Chaco etc). È la filiera carne-pelle sudamericana sotto scrutinio internazionale da lustri, insomma. Per gli allevatori del Vecchio Continente è un onere recente, posto solo dal (controverso) regolamento EUDR (che entrerà in vigore nel 2025), dimostrare che non deforestano porzioni di Germania, Svizzera o Scandinavia per crescere bovini (cosa che, ça va sans dire, non fanno). Che si stiano attrezzando ora per rispondere alle richieste di Bruxelle, dunque, è fisiologico.

Foto da Facebook

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