La ricerca senza fine di definizioni (fuorvianti) per materiali che pelle non sono: è il turno di “leathery”

Quando nell’inverno del 2016 un bimbo della Elementari coniò il termine “petaloso”, ricevendo il riconoscimento dell’Accademia della Crusca, l’episodio suscitò un’onda social di simpatia che tenne banco per qualche giorno su quotidiani e bacheche Facebook. Il fatto ormai è un po’ datato, ma quando abbiamo letto in “Pulse of Fashion 2017” (pubblicazione a cura di Global Fashion Agenda e The Boston Consulting Group) il termine “leathery” ci è tornato in mente. Perché l’aggettivo, all’impronta, è traducibile come “pelloso” e, se non è un vero e proprio neologismo, poco ci manca. Peccato che la trovata degli autori del report, presentato al Copenaghen Fashion Summit, non ci stimoli nessun tipo di tenerezza, a differenza del più celebrato “petaloso”. Perché? Gli autori nello studio sostengono (con un metodo incerto e opinabile cui abbiamo dedicato un approfondimento ne La Conceria n. 19) che proprio i materiali naturali, in primis la pelle, abbiano un impatto ambientale difficilmente sostenibile per l’industria della moda. Per questo, allora, consigliano il ricorso a tessuti alternativi, meglio se, appunto, “leathery”. Pellosi. Per noi, un abominio su tutti i fronti.

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