WWD si fa due domande sulle alternative vegane (consultando FILK)

WWD si fa due domande sulle alternative vegane (consultando FILK)

“Anche se si parla sempre più di materiali bio-based, bisogna dire che questi non sono intrinsecamente nuovi, né ecologici”. Finalmente. WWD, testata internazionale che si interessa di fashion business, si fa due domande a proposito delle alternative vegane che tanta fortuna incontrano di questi tempi. Innanzitutto ci tiene a ricordare che non sono proprio così innovative. Malgrado per avere successo si debbano ammantare del senso di novità, già 5.000 anni fa l’abbigliamento di Ötzi prevedeva un mix di materiali di origine animale e vegetale. Ma, ancor di più, WWD ricorda che anche la presunta maggiore sostenibilità delle alternative veg è, per l’appunto, solo presunta.

WWD si fa due domande

Due impulsi attraversano il mercato dei materiali. Innanzitutto “mitigare la crisi della plastica e arrivare ad un uso efficiente delle materie prime”. Poi, offrire risposte alla nuova platea “di consumatori vegani”. Gli ingegneri si sfrenano nella ricerca di soluzioni bio-based, ma, chiosa WWD, “nemmeno i materiali da fonti vegetali sono perfetti: vegano non significa sostenibile o biodegradabile”.

Le risposte di FILK

Il range di prodotti di cui si occupa WWD è di quelli che chi legge La Conceria ben conosce. “Una volta elaborati fino ad assumere la parvenza della pelle, si dà per inteso che Vegea, Desserto e Piñatex ne raggiungano anche le prestazioni. Ma secondo lo studio dell’Istituto FILK non è così sul piano della resistenza alla trazione e allo strappo, della flessibilità, dell’assorbimento dell’acqua e della presenza indebita di sostanze chimiche dannose”. Proprio a tal proposito, WWD ricorda come lo studio di FILK abbia rilevato nei nuovi tessuti “materiali sintetici” insieme a “sostanze soggette a limitazione come il butanone ossima”. Insomma, la matrice sarà bio-based, ma non c’è solo quello.

 

 

Tra marketing e scienza

Brand e consumatori vorrebbero “che i materiali siano futuristici e del tutto innovativi – spiega a WWD Theanne Schiros, ricercatrice del Fashion Institute of Technology di New York –. Ma una competizione dove i nomi suggestivi prevalgono sulla verità, o dove il battage su quanto sia meraviglioso un prodotto, è un disservizio per la vera innovazione”. Ci sono tante questioni aperte: l’impiego delle plastiche, la biodegradabilità e il carbon footprint, specie immaginando lo scenario in cui questi tali materiali non sono fabbricati per mercati di nicchia, ma su scala di massa.

Il valore contro-intuitivo della pelle

Si pone, oltretutto, il problema della sostenibilità in un senso olistico. “La scienza è lo strumento di risoluzione dei problemi più potente che abbiamo – conclude Daniel Natusch, esperto di conservazione e membro di IUCN –. La scienza ha dimostrato, forse in modo contro-intuitivo, che le griffe svolgono un ruolo importante nella conservazione delle specie di rettili e dei loro habitat. Ignorare la scienza rischia di mettere a repentaglio i sistemi di gestione di successo esistenti in tutto il mondo”. Eliminare i materiali animali dalla moda, insomma, non renderebbe un buon servizio alla natura.

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