Dopo Chanel, Selfridges vieta le pelli esotiche. Ma il dibattito non si ferma: anche Spiked si chiede se questa è sostenibilità

Sono due le obiezioni che la rivista britannica Spiked muove a PETA e, più in generale, ai sostenitori della moda “animal free”. La prima riguarda i confini tra la scelta individuale, sempre valida, e l’imperativo di massa, che invece restringe la libertà della collettività. Quindi “it’s fine”, può andar bene, che il singolo arrivi a certe conclusioni per sé stesso (come non voler più indossare pellicce), riconosce Spiked, ma imporle a tutti vuol dire “restringere il campo di scelta del consumatore”. La seconda obiezione, invece, riguarda la consapevolezza di chi propugna certe campagne: ha ben compreso tutte le conseguenze, ambientali e sociali, derivanti dall’(eventuale) abbandono della moda di tutti i materiali animali? La domanda è retorica. Secondo Spiked, la risposta è no.
Un tema caldo
Il titolo del pezzo che Spiked dedica all’argomento è: “First fur, now wool?” (Prima la pelliccia, ora la lana). Stiamo assistendo a un continuo spostamento in avanti del fronte, a un innalzamento dell’asticella: un certo tipo di battaglia ideologica, che sigle come PETA concentrava sulla pelliccia, si sta spostando su tutti i materiali di derivazione animale. PETA, per l’appunto, ha lanciato di recente campagne contro l’uso della lana, ma anche per convincere Levi’s ad abbandonare la pelle. In questo modo, gli ultra-veg sono certi di aiutare ambiente e animali.
Ma il tema della sostenibilità è molto più complesso. Come vi raccontiamo sull’ultimo numero del nostro magazine, scegliere i materiali alternativi vuol dire spingere l’acceleratore del consumo di sottoprodotti del petrolio, che pongono altri problemi relativi alla durabilità e allo smaltimento del capo. In più, rinunciare alle pelli esotiche significa decretare la fine dei progetti di conservazione delle specie animali, che si fondano anche sull’equilibrio del loro stesso sfruttamento economico, nonché sottrarre una fonte di sostentamento a comunità rurali in Asia, Africa e Americhe.
Lo smottamento di Chanel
Quando lo scorso dicembre Chanel ha annunciato l’addio alle pelli esotiche, c’era da aspettarsi un effetto domino. Cominciamo a vederlo. Perché se si può leggere come una risposta indiretta la revisione degli standard di qualità imposti da LVMH ai suoi fornitori di coccodrillo, la mossa di Selfridges risulta invece in piena scia. Il retailer inglese, che già dal 2005 non vende più capi in pelliccia, dal 2020 eliminerà dagli scaffali prodotti in pelli pregiate come lucertola, pitone e alligatore. “Bandire le pelli esotiche in riconoscimento dei gravi problemi di benessere degli animali che esistono in questo settore – è la posizione di Selfridges ripresa dal Guardian – è un passo naturale per un rivenditore che si ritiene responsabile”.
La risposta
È davvero come dice Selfridges? L’operatore responsabile è colui che sottrae, non quello che aggiunge nuovo impegno, nuove best practice, nuovi processi di allevamento e lavorazione delle pelli? Sull’ultimo numero della rivista, riportando le opinioni di operatori della filiera e di organizzazioni internazionali, suggeriamo un’interpretazione del fenomeno. Scrivendoci a latuarisposta@laconceria.it puoi dirci la tua.

 

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