“Vecchi a chi?”: la moda italiana risponde a Wall Street Journal

“Vecchi a chi?”: la moda italiana risponde a Wall Street Journal

“Vecchi a chi?”. Wall Street Journal (WSJ) ai primi di settembre si è preso la briga di accusare la moda italiana di senescenza, di aver cioè definito gli standard del lusso, salvo poi perdere il treno della storia e rimanere in dietro rispetto ai grandi gruppi internazionali. L’articolo era in parte una risposta a certe dichiarazioni di Giorgio Armani, il quale escludeva per il proprio impero un futuro controllato da holding francese. In parte rientrava nelle tipiche polemiche che da Oltreoceano muovono contro l’alta moda italiana ogni volta che si avvicinano le fashion week. Dalle colonne de la Repubblica i capitani del lusso tricolore rispondono ora a tono. Dimostrando la vivacità del sistema.

“Vecchi a chi?”

Wall Street Journal pone il problema della senescenza da più punti di vista: anagrafico (a partire proprio dall’età di Giorgio Armani), quindi di mentalità e di prospettiva imprenditoriale dei brand. “Giudicare un imprenditore dall’età anagrafica non ha senso – ribatte Domenico De Sole, CEO italo-americano che la moda internazionale la conosce bene, avendo guidato Gucci e Tom Ford –. Anche Ralph Lauren e Bernard Arnault, rispettivamente di 83 e 74 anni, non sono dei ragazzini”. Per De Sole WSJ sbaglia non solo per una questione di bon ton. I fondatori sono troppo presenti secondo la testata finanziaria? “È normale che la prima generazione di un marchio tenda a essere più presente in azienda – risponde –, per proseguire nella visione impostata”.

 

 

Se le holding funzionano meglio

WSJ suggerisce che i ciclopici sodalizi transalpini garantiscano funzionamenti migliori in termini di turnover di dirigenti e creativi. Sicuri? I fondatori “nel lavoro ci mettono amore, cuore, passione, sogno e desiderio – sostiene Renzo Rosso (OTB) ancora dalle colonne de La Repubblica –. Questo in Francia non c’è, perché sono tutte gestioni finanziarie, spersonalizzate. E non dimentichiamo che l’80% della filiera del lusso è in Italia, e si basa sulle piccole aziende a conduzione familiare”. Per Brunello Cucinelli (un altro degli imprenditori che WSJ tira in ballo) il futuro del made in Italy non è in questione. “Se, come si dice, si produce in Italia il 70% dei manufatti che vendono i brand francesi, vuol dire che siamo il più grande Paese manifatturiero al mondo per il lusso. La nostra storia di artigiani ci ha trasformato in industriali fedeli alle tradizioni e ai valori della famiglia e del territorio – conclude –. Per questo curiamo tanto la qualità del prodotto, il territorio e la dignità dei lavoratori”.

 

 

Leggi anche:

CONTENUTI PREMIUM

Scegli uno dei nostri piani di abbonamento

Vuoi ricevere la nostra newsletter?
iscriviti adesso
×