Ci ha messo 22 anni, ma Blahnik ha vinto contro l’imitatore cinese

Ci ha messo 22 anni, ma Blahnik ha vinto contro l’imitatore cinese

Dopo una battaglia legale durata 22 anni, la Corte Suprema Cinese ha dato finalmente ragione a Manolo Blahnik. Che così, sconfitto il marchio “Manolo & Blahnik” (la cui domanda di registrazione risale a gennaio 1999), potrà iniziare a vendere direttamente in Cina. Già, perché il marchio fraudolento, riconducibile all’uomo d’affari cinese Fang Yuzhou, impediva all’azienda britannica di vendere direttamente in Cina. “Mi verrebbe un infarto se dovessi davvero tirare le somme” ha detto lo stilista in merito alle spese legali sostenute in oltre quattro lustri di causa. La sentenza potrebbe fare da precedente per gli altri brand impelagati in battaglie legali simili.

La vertenza

Fang Yuzhou ha presentato la domanda di registrazione del marchio “Manolo & Blahnik” nel 1999, dicevamo. E ha visto China Trade Mark Office (CTMO) accoglierla nel 2000. Poco dopo alla vera Manolo Blahnik è toccato presentare opposizione al CTMO, avviando una controversia legale costosa e impegnativa. La società europea ha visto diversi ricorsi respinti, perché non riusciva a dimostrare di avere una reputazione in Cina (cioè di essere già popolare) prima del 2000.  La sentenza “storica”, arrivata dopo 22 anni di attesa,  ora permetterà al calzaturificio di lusso britannico di vendere direttamente nel paese asiatico per la prima volta.

 

 

Sospiro di sollievo

“Era un buco enorme nella nostra esistenza”, ha dichiarato al Financial Times Kristina Blahnik, CEO del brand e nipote del fondatore. Blahnik ha dichiarato che i piani dell’azienda per il mercato cinese sono ancora in fase iniziale. Ma spera di iniziare a vendere direttamente nella Repubblica Popolare entro la seconda metà del prossimo anno.

Il sistema first to file

In Cina vige un sistema di registrazione dei marchi “first to file” (chi prima deposita, ha ragione). Questo ha reso molte aziende internazionali vulnerabili all’azione dei “pirati del brevetto“. Quelli, cioè, che cercano di registrare marchi uguali o molto simili a quelli globali, bruciando sul tempo gli effettivi titolari. Julie Zerbo, fondatrice e caporedattore di The Fashion Law, a Jing Daily spiega che la sentenza è “perfettamente in linea con quanto stiamo vedendo dall’ufficio marchi e dai vari livelli dei tribunali cinesi”. Indica come il sistema cinese possa “prendere atto delle pratiche di deposito dei marchi in malafede e dare ai brand stranieri la possibilità di rivendicare i propri diritti”. (mv)

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