“Vi racconto di me e del perché le sneaker sono un problema”

“Vi racconto di me e del perché le sneaker sono un problema”

Fabio Tronchetti è stato per oltre 40 anni manager di Bata, per la quale ha rivestito il ruolo di presidente per l’Europa. Da 10 anni opera con la società di consulenza Fair Play Consulting di Padova. È autore, infine, del volume “Vi racconto di me”, uscito di recente per i tipi della casa editrice Marsilio. Il suo punto di vista sulla scarpa è forte dell’esperienza, ma è anche rivolto al futuro. “La calzatura italiana sta attraversando il periodo più difficile della sua storia. Probabilmente per riprendersi dovrà prima aspettare una inversione delle tendenze moda e il calo della sneaker”.

Come vede il mercato?
Negli ultimi cinque anni si è accentuata la sneakerizzazione. Per l’uomo la scarpa formale si vende molto poco. Per la donna, per fortuna, c’è maggior spazio per sandali e stivali. I giovani consumano di più, ma acquistano sneaker, nella maggior parte dei casi di un brand riconoscibile. La scommessa è vedere cosa accade quando ci sarà una parziale inversione di tendenza. Non si tornerà più indietro del tutto, ma le tendenze moda non durano mai per sempre.

La scarpa sportiva è un problema per la calzatura italiana?
Sicuramente rappresenta un problema. Una prima produzione di sneaker in Europa risale agli anni ’80 nel distretto di Barletta. Poi l’abbiamo lasciata, per abbracciare la produzione di una scarpa più tradizionale e maggiormente richiesta in Europa. Abbiamo perso il treno. E ora non è così semplice convertire la produzione da scarpa formale a sneaker, anche per i costi finali del prodotto.

Quindi dovremo aspettare il ritorno della scarpa formale?
Il rischio è quello di aspettare troppo. Le sneaker sono confortevoli, non richiedono manutenzione, costano meno. Ci sarà un ritorno alla scarpa casual, meno sportiva, più elegante e più italiana.

Si indica spesso l’aggregazione come una via d’uscita dalla crisi…
Ho sempre sostenuto che “piccolo è bello”, ma grande funziona di più. Credo che al di là della mentalità imprenditoriale, sia davvero difficile mettere insieme aziende complete che producono, vendono, ecc. Ritengo che il Governo possa fare qualcosa in questo senso, almeno per facilitare l’aggregazione dell’area vendita delle imprese. Penso a degli showroom all’estero. Ma se non nasce nulla nemmeno in un periodo come questo, che è il più difficile della storia…

Lei ne sa di storia, vista la sua esperienza ultradecennale in Bata…
Sono entrato nel 1969 e uscito nel 2010. Compar Bata è passata da 40 a oltre 400 negozi. Ma ci sono stati anche anni difficili (da fine anni ’60 a metà degli ’80), quando Bata si è trasformata da gruppo industriale a gruppo retail. Ciò ha comportato la chiusura di 8-9 grandi stabilimenti produttivi in Europa. In Italia c’è stata una grande espansione e anche oggi Bata è numero uno nel settore del reatil calzaturiero nostrano. A livello quantità probabilmente Bata è numero uno al mondo.

Una storia che lei racconta nel libro “Vi racconto di me”
Sì, racconto la mia carriera, da responsabile di negozio fino a presidente di Bata Europa. Oltre ai momenti difficili già accennati, un altro si è avuto con l’ingresso della Cina nel WTO. È stata una rivoluzione. Nel 2002-2003 vendevamo 6-7 milioni di paia, la maggior parte acquistate in Italia. Per esplorare la produzione cinese abbiamo rivisto tutta la strategia. Approvvigionarsi in Italia voleva dire che dall’ordine alla consegna passavano 4-6 mesi. In Cina invece ci volevano 12-15 mesi, se non 18. Fu un rivoluzione totale a cominciare dalla programmazione.

Ora i tempi dalla Cina si sono accorciati…
Vero, ma sono sempre lunghi. Tant’è che, anche causa pandemia, le aziende europee pare vogliano una supply chain più corta, snella, controllabile. Un’idea che si è rafforzata di recente, con l’aumento dei costi di trasporto. Questo è un buon segnale per l’Italia. (mv)

 

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