A Vogue proprio non è chiaro il rapporto tra concia e allevamenti

A Vogue proprio non è chiaro il rapporto tra concia e allevamenti

La pelle è “il prossimo obiettivo” degli sforzi di trasparenza del fashion system, titola Vogue Business. La pelle dovrebbe essere anche il prossimo argomento di studio della testata, aggiungiamo noi. Perché dimostra di non avere affatto le idee chiare sul rapporto tra concia e allevamenti. Motivo per il quale, prendendo spunto da una video-inchiesta di PETA su irregolarità e abusi nel commercio internazionale di bestiame vivo, arriva a sostenere (in estrema sintesi) che la responsabilità è dell’industria conciaria. Ma non è così.

Il passaggio rivelatore

C’è un passaggio in cui il redattore lascia intendere di essere stato a un passo così dal cogliere il nucleo della questione. “L’interscambio di animali vivi – scrive – è sostenuto principalmente dalla domanda di carne dei Paesi importatori”. La frase contiene due inesattezze. L’avverbio giusto non è principalmente, bensì completamente. Mentre l’interscambio non è solo su scala globale, ma anche nazionale. Perché i bovini sono allevati e, quindi, macellati, per il latte e per la carne, i principali prodotti della zootecnia. La concia, infine, raccoglie un sottoprodotto e lo trasforma in un ancestrale processo di upcycling.

Il rapporto tra concia e allevamenti

Non è raro che si confonda, anche tra gli addetti ai lavori, il ruolo della concia nella filiera carne-pelle. I bottali non sono committenti degli allevatori. Al contrario, si pongono al termine del loro processo e, svolgendo una funzione di economia circolare, ne riscattano un sottoprodotto altrimenti destinato alla discarica o all’incenerimento (a seconda delle normative locali). Ci sarebbero tante citazioni possibili per avvalorare l’assunto. Ma basta attenersi alla cronaca recente. Il Conseil National du Cuir, organo francese che rappresenta il settore, si è lamentato recentemente del problema degli enormi stock di pelli grezze. La zootecnia nei mesi del lockdown ha continuato a lavorare per riempire i piatti dei francesi. La concia, invece, si è prima fermata e, poi, ritrovata in una situazione di domanda debole. Allevatori e macelli transalpini, dunque, hanno continuato nel proprio business: che è quello di fornire il pubblico di generi alimentari, non le concerie di materia prima. I raccoglitori di pelli grezze, anello di congiunzione tra i due settori, sono ora in difficoltà: i depositi sono pieni e non sanno dove stipare le pelli.

 

 

Clima d’accusa

Non è dunque alla concia che bisogna chieder conto delle irregolarità o degli eventuali illeciti commessi nel commercio di bestiame. Perché non è la concia a tenere le redini delle attività. Questo non vuol dire, però, che l’industria della pelle se ne disinteressi. Il pezzo di Vogue Business dà l’impressione che il settore, diciamo così, faccia lo gnorri per convenienza. La pelle invece ha a cuore le tematiche relative al tracciamento della materia prima, al welfare animale e alla sostenibilità sociale e ambientale della filiera. Vogue Business interpella Nathalie Walker, direttore della sezione Tropical Forest and Agriculture della National Wildlife Federation. È lei a ricordare come, con gli schemi di ICEC, come di CSBC (per il Brasile) e di LWG, la pelle, negli anni, si sia data gli strumenti per certificare prodotto e processo. Questo mentre gruppi della moda, Kering su tutti, hanno approntato propri piani. La trasparenza è certo un impegno, tornando al titolo dell’articolo. All’appello, va ricordato, la pelle ha già risposto: “Presente”.

Nell’immagine, screenshot da voguebusiness.com

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