Gli strafalcioni di chi di moda sa poco, ma scrive e pontifica

Gli strafalcioni di chi di moda sa poco, ma scrive e pontifica

“Meno male che molti brand non usano più la pelliccia, si dovrebbe usare ancora meno pelle”. Si potrebbe sintetizzare così il pezzo sulle questioni etiche nell’industria della moda di Artribune. Rivista che apprezziamo quando (come da testata) si occupa di arte in tutte le sue declinazioni. Ma che ci lascia basiti, invece, per il modo in cui si avventura nel fashion system: dà l’impressione di non saperne molto, ma ciononostante scrive e pontifica. Sorvoliamo sul pregiudizio vegano che trasuda dal pezzo: è evidente che porta acqua al mulino di chi non vuole che si usino i materiali animali. Sono gli strafalcioni a farci cascare le braccia: su premesse così confusionarie, come si può arrivare a conclusioni tanto perentorie?

Che cosa lavora la concia?

Leggiamo da Artribune: “La motivazione (o scusa) adottata dai produttori di cuoio e di pelle è che non si rivolgono ad allevatori di animali uccisi espressamente per realizzare capi e accessori di moda, bensì raccolgono i resti di carne bovina indirizzata al consumo alimentare”. Ok, è evidente che all’autrice non è chiaro che le concerie dalle imprese zootecniche ricevono pelle grezza, non “resti di carne” (mah). Ci sorprende ancora di più che voglia mettere in discussione la circolarità della concia e per questo la sua funzione sostenibile. Su quali presupposti?

La scienza contro un “si dice”

“Molte associazioni animaliste – continua l’articolo – hanno più volte sottolineato che (…) i produttori di pelle farebbero pressioni, anche indirettamente, sugli allevatori per macellare più animali, i cui scarti finiscono per sovvenzionare l’industria della moda”. Ah. Chi conosce i rapporti di filiera sa che la pelle è un sottoprodotto dell’industria della carne, che la concia salva dalla discarica. Chi vuole riscontri terzi e oggettivi, ne trova molti: come UNIDO (agenzia delle Nazioni Unite) che riconosce le pelli come un “byproduct”, appunto, degli allevamenti e la concia come tra le più grandi attività basate sulla lavorazione di un byproduct. Ma ad Artribune basta un “si dice” per insinuare che sia tutta una baggianata. Anzi, le concerie influenzerebbero i tassi di conferimento ai macelli: basterebbe seguire la cronaca (argentina, per rimanere ai casi recenti) per sapere che non è così.

 

 

 

Fantomatici viaggi intercontinentali

Non è l’unico scivolone di Artribune. Che, ampliando con lo stesso piglio animalista (e confusionario) il focus alle pelli esotiche, infila questa perla: “Quando si tratta di lussuose case di moda, i clienti facoltosi possono recarsi negli allevamenti di coccodrilli o alligatori per scegliere l’animale che sarà sacrificato per produrre una borsa”. Anche in questo, l’asserzione non ha fonte. A noi viene da sorridere. Lasciamo aperta la porta al caso e ammettiamo la possibilità che su base episodica un ricco cliente abbia chiesto di selezionare personalmente l’animale da cui ottenere la pelle. Sarà. Ma vi sembra un servizio possibile da offrire su larga scala? Immaginate “il facoltoso cliente” della maison che passa in boutique a Parigi o New York per scegliersi un accessorio, poi vola in Louisiana, Australia o Zambia perché vuole scegliersi da vivo il rettile il cui derma, una volta conciato e rifinito, costituirà la sua borsa, e infine passa in boutique a ritirare l’articolo. Molto comodo.

Non ne sa, ma scrive e pontifica

Come dicevamo, il pezzo trasuda di pregiudizio vegano. E infatti finisce per tirare la volata ai “tanti materiali” alternativi alla pelle “che nascono come scarti di altre materie” vegetali. Gli stessi materiali, insomma, che la ricerca dimostra essere meno performanti e sostenibili della pelle. La chiusura di Artribune, però, è rivelatrice: “Forse vent’anni fa non avremmo mai immaginato di indossare materiali alternativi o addirittura la plastica, eppure alcuni brand hanno trasformato questo materiale di recupero in qualcosa di nobile”. Ecco, neanche noi vent’anni fa ci saremmo aspettati che la plastica sarebbe stata considerata da alcuni segmenti dell’opinione pubblica più nobile della pelle. Per di più su presupposti completamente sballati.

Foto da Shutterstock

 

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